Di giudici, giurie e giudizi equi/4.1958-1967

1958

Non è un episodio specifico ma un atteggiamento che lego a quest’anno. Fra il 1896 e il 1914, ultimo anno in cui è stato disputato il Campionato del mondo prima della sospensione causata dalla Prima Guerra Mondiale, diversi pattinatori russi hanno partecipato alla gara. Nel 1917 c’è stata la rivoluzione d’ottobre, e i pattinatori russi/sovietici sono stati lontani da una disciplina borghese come il pattinaggio per decenni. Questo fino a quando qualcuno non ha deciso che un ottimo modo per mostrare la supremazia sovietica sul mondo era dominare in campo sportivo. Nel 1958 Lev Mikhailov (17° fra gli uomini) e Nina Zhuk/Stanislav Zhuk (8i nelle coppie di artistico) hanno preso parte al Campionato del mondo. La prima medaglia dopo il rientro alle gare è stata l’argento di Liudmila Belousova/Oleg Protopopov nelle coppie di artistico nel 1962, ma ovviamente dopo ne sono arrivate molte altre, di tutti i colori e in tutte le discipline. Parlando del bloc judging, che definisce “un vero dramma”, Bianchetti Garbato scrive che

dal 1946 fino alla caduta del Muro di Berlino (1989), infatti, i governi dei Paesi comunisti consideravano lo sport uno strumento di politica estera e questo era soprattutto vero per l’Unione Sovietica e la Germania orientale, i cui giudici dovevano sostenere i propri pattinatori quale fosse la qualità delle loro prestazioni e assegnare punteggi e piazzamenti secondo gli ordini ricevuti. (Bianchetti Garbato, pag. 58)

Bianchetti Garbato ricorda che la federazione sovietica aveva un controllo assoluto, oltre che sui propri giudici, su quelli di Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania e Ungheria. La pressione sui giudici era enorme:

se rispettavano le istruzioni ricevute, avrebbero potuto continuare a giudicare, altrimenti, nella maggior parte dei casi, sarebbero stati privati di questo diritto per sempre, gli sarebbero stati anche tolti i passaporti e avrebbero perduto l’unica opportunità di andare all’estero e visitare un Paese occidentale. In alcuni casi avrebbero persino rischiato di perdere il lavoro. (Bianchetti Garbato, pag. 58)

L’atteggiamento viene confermato da Beverley Smith:

Up to the 1950s, political gamesmanship among judges had been rampant in figure skating, even at the world-championship level. The political intrigue intensified during the 1960s, when the Soviets became firmly entrenched in the sport and Soviet satellite countries jostled and traded and bartered marks with them. (Pag. 51)

Smith ritorna sull’argomento a pagina 84, spiegando che le figure obbligatorie erano il teatro delle maggiori manipolazioni perché a vederle erano davvero poche persone, quindi nessuno poteva contestare il risultato di una gara che non aveva visto. I sovietici, secondo quanto afferma Smith, controllavano i giudici cechi, ungheresi, bulgari e polacchi, atteggiamento che ha portato le altre nazioni ad allearsi a loro volta. È lei a riportare un’affermazione di Peter Dunfield, pattinatore canadese ottavo al Campionato del mondo nel 1953 e nel 1954:

“The West reacted to that, but they didn’t initiate it. It was the only way we could deal with it.” (Pag. 84)

La tendenza a dire che è colpa degli altri, che sono stati loro a cominciare, l’abbiamo tutti, anche se gli episodi che ho citato dimostrano che i giudizi poco chiari ci sono sempre stati. Però è interessante notare che un pattinatore forte – in seguito è pure diventato allenatore di pattinatrici quali Elizabeth Manley e Yuka Sato – riteneva normale essere scorretti per difendersi dalle scorrettezze altrui. In generale le dichiarazioni di Dunfield riportate nel libro mi sono piaciute, questa dà da pensare in un modo che di piacevole ha poco. Dunfield prosegue spiegando che, visto che nei paesi dell’Est erano in pochi ad avere la televisione, quando gli atleti tornavano a casa con le medaglie, per le persone comuni loro erano davvero i più forti, perché non avevano visto lo svolgersi delle gare e quindi potevano solo fidarsi di quanto scritto dai giornali.

Ora, con la televisione, le cose sono cambiate solo fino a un certo punto. Tempo fa mi sono imbattuta in un articolo che parlava dei due giudici cinesi sospesi dopo i Giochi olimpici di PyeongChang. Nei commenti una persona aveva scritto che anche i voti del giudice americano erano strani. Un’altra persona aveva ribattuto a questo commento scrivendo che il giudice americano non aveva fatto nulla di male altrimenti sarebbe stato sospeso anche lui. Non ricordo che articolo fosse, al momento non avevo tempo per rispondere e ho lasciato stare, ma i voti di Lorrie Parker, giudice americano del programma libero maschile, sono più strani di quelli di uno dei due giudici cinesi sospesi: https://sportlandiamartina.link/2020/07/29/lorrie-parker/. Certo, se uno non ha voglia di andare a guardare, nemmeno quando gli si fa notare che c’è qualcosa che non va, cosa che aveva fatto il primo dei due commentatori, poi non possiamo aspettarci che i voti scorretti spariscano, tanto a molte persone le cose stanno bene così come sono.

1961

Il Congresso di Bergen ha un’idea geniale: stabilire i giudici delle competizioni in base ai risultati delle competizioni dell’anno precedente. Cioè, sei giudici sarebbero stati della stessa nazionalità dei sei pattinatori più forti, e solo tre sarebbero stati estratti a sorte fra i giudici delle altre federazioni

riconoscendo di fatto il diritto delle federazioni forti ad essere rappresentate nelle giurie. La conseguenza più immediata ed evidente era che i casi di national bias fossero molto, troppo frequenti in giurie prevalentemente composte da giudici direttamente interessati ai risultati dei loro atleti, tutti ai massimi livelli. Di più: il fatto che un giudice sostenesse il proprio pattinatore rientrava più o meno nella normalità e come tale era accettato… […]

dai risultati delle gare, appariva evidente che i giudici delle nazioni senza atleti di punta in lizza per le medaglie erano più corretti e non subivano pressioni da parte delle loro federazioni (Bianchetti Garbato, pag. 40).

Per fortuna questo modo di scegliere i giudici non è durato troppo a lungo, ma le parole di Bianchetti Garbato dicono chiaramente che di danni ce ne sono stati.

1960, Giochi olimpici

Questa è un’aggiunta che faccio a distanza di tempo, perché mi sono imbattuta in un interessante passaggio in On Thin Ice di Henry Jelinek Jr. e Ann Pinchot. Il libro è disponibile gratuitamente qui: http://hdl.handle.net/11134/20002:199706607.

Henry Jelinek è il fratello minore di Maria e Otto Jelinek, campioni del mondo nelle coppie di artistico nel 1962. Jelinek scrive che

At the Squaw Valley rink, Maria and otto were in top form. Yet when the judges put up their marks, both the young skaters and the spectators were shocked to discover they had placed fourth. A few days later, at the World Championship at Vancouver Otto and Maria skated less perfectly and yet were placed second. The same competitors and most of same judges.
In the words of Dick Button, “For some unknown reason the Jelinek’s marks were far below what they should have been, in view of the excellence of their performance.” (pag. 116)

Qualche riga più in basso Henry dice che suoi fratelli erano abituati ad accettare tutto con spirito sportivo, defeat, disappointment, perhaps injustice, e ad andare avanti.

Sarebbe bello poter guardare i programmi per sapere cosa hanno effettivamente fatto i pattinatori sul ghiaccio. Non potendolo fare, guardo i risultati delle gare a cui i fratelli Jelinek hanno partecipato. Bronzo mondiale nel 1957, alla loro prima partecipazione alla gara. La gara è stata vinta, come tutte quelle di questo periodo, da Barbara Wagner/Robert Paul, direi che i più forti erano loro. Secondi si sono classificati Marika Kilius/Franz Ningel, terzi i fratelli Jelinek, nati in Cecoslovacchia ma fuggiti in Canada nel 1948, quarti i coniugi statunitensi Nancy e Ronald Ludington (ok, nel 1957 non erano ancora coniugi, ma i membri della coppia sono sempre loro). Nel 1958 Wagner/Paul hanno vinto un altro oro, l’argento è andato ai cecoslovacchi Vera Suchankova/Zdenek Dolezal, alla loro seconda e ultima partecipazione mondiale, il bronzo nuovamente ai fratelli Jelinek. I coniugi Ludington si sono piazzati al quinto posto, superati anche dai britannici Joyce Coates/Anthony Holles, alla loro terza e ultima partecipazione mondiale. Marika Kilius, che era cresciuta diventando troppo pesante per il suo precedente partner, ha formato una nuova coppia con Hans-Jurgen Baumler. La coppia si è classificata seste, ma per trovare l’unisono in una nuova coppia di solito serve un po’ di tempo. I distacchi sono interessanti, perché Wagner/Paul hanno fatto gara a sé, Suchankova/Dolezal hanno lottato con Jelinek/Jelinek, gli altri erano molto lontani. Al Campionato del mondo preolimpico, nel 1959, disputato negli Stati Uniti, i coniugi statunitensi hanno sperato per la prima volta, di stretta misura, i fratelli Jelinek, perciò sono stati loro a vincere il bronzo. Lo stesso risultato, Ludington terzi, Jelinek quarti, si è ripetuto ai Giochi olimpici del 1960, disputati negli Stati Uniti. Il distacco è minimo, a ricoprire il ruolo di referee è stato un ex presidente della federazione statunitense di pattinaggio. Al successivo Campionato del mondo, disputato in Canada, i fratelli Jelinek sono saliti al secondo posto, con un vantaggio piccolo sui tedeschi Kilius/Baumler. I Ludington sono precipitati al sesto posto, con un distacco notevole dal podio.

Jelinek 2

I risultati sono quanto meno curiosi, e con quanto scritto da Henry Jelinek non si può non avere qualche dubbio. Anche perché la medaglia vinta dai coniugi Ludington è stata la prima medaglia vinta dagli atleti statunitensi nei Giochi olimpici invernali del 1960.

Jelinek 1

Inizio anni ‘60

Beverley Smith non fornisce indicazioni sulla gara, quindi non ho idea di quale sia. Protagoniste dell’episodio sono Ellen Burka, famosissima allenatrice canadese di origine olandese (fra gli atleti da lei allenati Toller Cranston, Dorothy Hamill, Cristopher Bowman, Elvis Stojko e Patrick Chan, giusto per limitarmi a gente che ha vinto medaglie al Campionato del mondo) e sua figlia Petra Burka. Petra è stata una delle più forti pattinatrici canadesi di sempre, con un bronzo olimpico vinto nel 1964 e un oro e due bronzi mondiali, ed è stata la prima pattinatrice a eseguire un salto triplo, un Salchow. Il periodo quindi dev’essere la prima metà degli anni ’60.

Once Burka was told that her daughter received low marks for a figure that a judge said had a couple of “flats” on it – signs that she had skated improperly on the flat of her blade, leaving two tracks on the ice, instead of on an edge, which would leave one track. “Nobody ever saw the figures,” Burka says. “Nobody came to watch figures.”

Burka found another judge to take a look at the figure, which hadn’t yet been swept away. When he found no flats, the embarrassed maker said he was confused by the way the light fell on it, she said.

“Figures was a big field for creations,” says Sergei Tchetveroukhin, the first male skater from the Soviet Union to win a world or Olympic medal. “Nobody could see what you do. The judges could do what they wanted. The judges could really screw you up.” (Smith, pag. 85)

Bella la luce che porta il giudice a sbagliare, ma i giudici non stavano sul ghiaccio vicino ai pattinatori e, una volta che gli atleti avevano finito,  prendevano le misure dei segni che avevano lasciato sul ghiaccio? Io non ho mai assistito all’esecuzione delle figure, ho iniziato a guardare le gare proprio quando stavano per sparire – ed è un peccato che non siano sparite prima, Midori Ito avrebbe meritato di vincere di più – ma giusto per capire qualche cosa riporto le parole di Bianchetti Garbato, che prima le ha eseguite come atleta e poi le ha giudicate come giudice (e infine le ha fatte eliminare). Durante la gara i giudici

stavano in piedi sulla pista, allineati a una certa distanza dal pattinatore, per non essergli d’intralcio durante l’esecuzione. Dovevano poi esaminare le tracce sul ghiaccio, misurare la grandezza dei cerchi, che dovevano essere uguali, e il loro allineamento laterale, controllare l’asse della figura e dei becchi, nonché cercare eventuali cambi di filo. (Bianchetti Garbato, pag. 33)

Con una spiegazione di questo tipo mi viene da pensare che, se la luce dava fastidio, il giudice poteva spostarsi e guardare la figura da un altro lato. Ma di cosa parliamo, se a dire che i giudici possono fare quello che vogliono è un pattinatore? Comunque anche se ora i voti li vediamo, se il pubblico e la stampa non si prendono la briga di leggere il regolamento e di guardare davvero cosa e come viene eseguito, concedono ai giudici la possibilità di continuare a fare ciò che vogliono.

1964, Campionato europeo

Nel primo campionato ISU che ha giudicato Sonia Bianchetti racconta di essere stata avvicinata da Ernst Labin, un membro del Consiglio dell’ISU, il quale

mi chiese, molto apertamente e senza tanti preamboli, di piazzare Emmerich Danzer, il campione austriaco, davanti al cecoslovacco Karol Divin nelle figure obbligatorie perché Danzer doveva essere sul podio! (pag. 27).

Molto bene, testimonianza in prima persona della richiesta di assegnazione di un voto scorretto. Secondo quello che la signora Bianchetti scrive, lei ha assegnato i voti corretti, con Danzer che aveva eseguito figure piuttosto scarse e che lei aveva piazzato al sesto posto, per un quinto posto complessivo nelle figure considerando tutti i giudici. Al termine di quella gara Danzer si è classificato quarto, Divin si è classificato terzo.

1965, Campionato del mondo

Sempre Bianchetti e sempre Danzer, anche se forse è meglio che specifichi che se anche è coinvolto il nome del pattinatore, gli atleti tendono a essere estranei ai giochi politici compiuti dalla loro federazione. Loro si allenano e gareggiano, semplicemente gli intrighi ruotano intorno a loro. Di nuovo le figure obbligatorie, dove

Danzer ricevette dei punteggi spropositati. Io lo piazzai di nuovo sesto, mentre il giudice austriaco lo mise primo. Durante l’esecuzione delle figure obbligatorie, Jacques Favart, che era il vicepresidente dell’ISU, non poté fare a meno di richiamare tutti i giudici e sottolineare che i punteggi dati a Danzer erano semplicemente scandalosi e che non si poteva continuare così” (pag. 28).

Forse anche ora servirebbe un vicepresidente capace di richiamare i giudici a questo modo.

1965, Campionato del mondo

Sempre la gara maschile. Se Bianchetti Garbato si è concentrata su un pattinatore che complessivamente si è piazzato al quinto posto, Smith, con un commento di Dunfield, si concentra sull’ultimo gradino del podio. Prima della Seconda Guerra Mondiale i pattinatori più forti erano europei, anche perché erano pochi quelli che viaggiavano da un continente all’altro per una gara. Il primo Campionato del mondo disputato fuori dall’Europa è stato quello di New York nel 1930, il secondo quello di Montreal del 1932, il terzo quello di Colorado Springs del 1957. Europa, Europa, Europa, anche se la Seconda Guerra Mondiale ha cambiato tutto, e non solo perché dopo è diventato più facile viaggiare e, da un certo momento il poi, la televisione ha iniziato a far conoscere il pattinaggio in un bel po’ di paesi. La guerra ha distrutto le piste in Europa, e i pattinatori europei più che allenarsi erano impegnati in guerra. Chissà come mai dopo la guerra le nazioni più forti sono diventate Stati Uniti e, in misura minore, Canada. E l’Asia? I paesi asiatici al pattinaggio sono arrivati tardi, il primo è stato il Giappone, con scarsi mezzi, il che significa che quei pattinatori per ottenere i risultati che hanno ottenuto hanno dovuto faticare molto più degli europei e dei nordamericani. Non c’erano piste, non c’erano immagini né istruttori che conoscevano il pattinaggio internazionale, tutto quello che avevano erano alcuni laghi ghiacciati d’inverno, qualche fotografia e qualche manuale di pattinaggio. La tradizione dei giapponesi, per forza di cose, era poca, e nessuno si aspettava da loro risultati importanti. Del resto, non ne avevano mai avuti:

Il gruppo delle colonne comprese fra B e S riporta i risultati ottenuti da pattinatori giapponesi al Campionato del mondo dall’anno del loro esordio internazionale, il 1932, le colonne comprese fra U e AL i loro risultati ai Giochi olimpici. In uno sport come il pattinaggio, in cui la tradizione e la fama sono importantissimi, questo non è il miglior biglietto da visita. Con questi precedenti per salire sul podio non basta essere più bravi degli avversari. Bisogna essere molto più bravi. Un bell’aiuto a capire cosa dovevano fare è arrivato dal viaggio compiuto in Giappone da Hayes Alan Jenkins, pattinatore che fra il 1953 e il 1956 aveva vinto un oro olimpico e quattro mondiali, e Tenley Albright, pattinatrice che nello stesso periodo aveva vinto un oro olimpico e due ori e due argenti mondiali, e i due pattinatori non si sarebbero fermati a queste medaglie. La federazione giapponese li ha invitati per un tour di esibizioni, e già che li aveva sul posto li ha filmati in modo che le nuove generazioni potessero imparare osservando i migliori.

Il mio schema si ferma volutamente al 1965, anno in cui Nobuo Sato si è classificato quarto al Campionato del mondo. Il miglior risultato di sempre per un pattinatore del suo paese, e tale sarebbe rimasto fino al bronzo di Minoru Sano del 1977. Eppure è un risultato che gli sta stretto. Sato

managed to finish fourth in the 1965 world championship in Colorado Springs. He should have finished in the medals, but judging politics prevented it, Dunfield says. (Smith, pag. 141)

A precederlo sono stati il francese Alain Calmat, lo statunitense Scott Allen e il canadese Donald Knight, nazioni che avevano tutt’altra tradizione.

1966, Campionato del mondo

La pattinatrice più forte, sulla carta, era Petra Burka, vincitrice del bronzo olimpico e mondiale nel 1964 alle spalle di Sjoukje Dijkstra, che si era ritirata, e Regine Heitzer, che invece aveva battuto nel 1965, quando era stata Burka a conquistare il titolo mondiale. Però

in 1966, she ran into emerging political realities, as she discovered that in a judged sport, preconceptions and rumor can become truth (Milton, Figure Skating’s…, pag. 86),

e questo è qualcosa che va tenuto presente anche ora: quando si esalta ripetutamente qualcuno per le sue doti di ballerino, anche se queste doti sul ghiaccio non si vedono, quando si critica ripetutamente qualcuno per la mancanza di originalità, senza guardare perché ha deciso di proporre determinate cose e la qualità con cui le propone, si sta costruendo una narrazione pericolosissima, che può cambiare, e ha già cambiato, il colore delle medaglie. Tornando a Burka, un giudice canadese le ha detto che era sovrappeso, e lei si è messa a dieta perdendo 25 libbre, circa 11 chili. Però,

when she arrived at the Worlds amid rumors, perhaps planted by competing federations, that she was vastly underweight, she found that American Peggy Fleming had gained judging favor.

“I knew before I competed that I wasn’t going to win,” says Burka. “Another coach came up to my mom at a party and told her.” (Milton, Figure Skating’s…, pag. 86)

Il problema del peso delle pattinatrici non è qualcosa di recente, c’era già all’epoca. La gara è stata effettivamente vinta dalla giovanissima Fleming, già bronzo l’anno precedente, nuova speranza americana e con una storia che non poteva non colpire gli americani, visto che nel 1961, quando Fleming aveva 12 anni, il suo allenatore, William Kipp, era morto nello schianto del Sabena Flight 548. Per chi non lo sapesse, nel 1961 l’aereo che stava trasportando l’intera squadra americana (compresi allenatori e familiari) al Campionato del mondo di Praga si era schiantato in fase di atterraggio nei pressi di Bruxelles, e tutte le 72 persone presenti a bordo – e il contadino sul cui campo l’aereo si era schiantato – erano morte. La tragedia ha segnato profondamente il pattinaggio americano, e gli statunitensi non potevano non guardare con simpatia a una ragazzina che era stata colpita dall’episodio. Fleming era comunque una pattinatrice straordinaria, probabilmente avrebbe vinto lo stesso, ma l’episodio ha deconcentrato Burka, che ha pattinato male e ha concluso quella che sarebbe diventata la sua ultima gara al terzo posto, superata anche da Gabriele Seyfert.

Per quanto riguarda l’aspetto fisico ricordo di aver sentito, nel corso del tempo, commenti sul fatto che non fossero belli, secondo gli standard comunemente accettati nel pattinaggio, Midori Ito ed Elvis Stojko, giusto per citare due pattinatori famosissimi, e che a volte le giurie li avrebbero penalizzati per questo. Magari ci tornerò su in un’altra occasione, per ora riporto un brano dell’inizio del nostro millennio che si riferisce a una coppia di danza attiva fra il 1996 e il 2007, e vincitrice dell’oro mondiale (e anche di un argento e un bronzo mondiale, ma capace di raggiungere al massimo il quinto posto ai Giochi olimpici) nelle sue ultime due stagioni agonistiche.

Two of the most talented ice dancers in the world today are the Bulgarian team of Albena Denkova and Maxim Staviski. Their technical abilities are unsurpassed and they have the most interesting and innovative programs of any of the elite dance teams. They have yet to win a world championship, though, and are not among those favored to take gold at the Olympics. Their problem, I was informed by a former national ice dancing champion, is that Staviski is (at 5′ 8″) too short. Denkova and Staviski do not have the “nice line” of their taller rivals Navka and Kostomarov. It’s not that Staviski has failed to master the required moves. It’s that he’s too short while he’s doing them (M.G. Piety, Sequins & Scandals).

E mentre Denkova/Staviski arrivavano quinti ai Giochi olimpici, Navka/Kostomarov vincevano l’oro. O ancora cambiando tipo di pregiudizio,

As skating journalist Lorrie Kim has written, ‘Many of the officials, judges, and skating federations, especially in the U.S., make it clear that they prefer male skaters to look “masculine” and will be harsher on effeminate-looking skaters when it comes to giving marks (Adams, Artistic Impressions).

Questo significa che, indipendentemente dalla qualità della prestazione, nella competizione maschile la giuria tende ad assegnare voti più alti a un pattinatore di cui viene percepita fortemente l’aura virile piuttosto che a un pattinatore che spesso si presenta in modo androgino. L’aspetto dei pattinatori, i pregiudizi dei giudici, sono importanti e spesso sono fondamentali nel determinare i risultati delle gare.

1967, Campionato del mondo

La gara maschile è stata vinta dall’austriaco Emmerich Danzer, campione del mondo uscente, davanti al connazionale Wolfgang Schwarz e allo statunitense Gary Visconti. Il podio è stato una replica di quello del 1966.

Non esistono immagini delle figure obbligatorie, quindi ora non è possibile dire nulla sulla correttezza dei voti, ma mentre gli altri giudici (sei europei, uno canadese e uno giapponese) hanno assegnato a Danzer un piazzamento fra il primo e il terzo posto, il giudice statunitense Jane Vaughn Sullivan lo ha piazzato al decimo posto. Ovviamente i suoi voti hanno suscitato polemiche, così come hanno suscitato polemiche i suoi voti nella gara delle coppie di artistico e nelle altre competizioni da lei giudicate al punto che, secondo Skate Guard (che, per chi non lo conoscesse, è un blog fatto bene), il vice presidente dell’ISU Ernest Labin avrebbe dichiarato che probabilmente avrebbero dovuto prendere provvedimenti contro di lei. Non è stato fatto nulla probabilmente perché Labin è morto improvvisamente non troppo tempo dopo. È anche vero che Labin era austriaco e poteva essere di parte, come è vero che quel pannello di giudici era fortemente sbilanciato in favore dei pattinatori austriaci. È un peccato non avere le immagini della gara, avrebbero potuto togliere numerosi dubbi.

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